C'E' UNA PARTE DELLA POLITICA ITALIANA NOSTALGICA DEGLI ATROCI ANNI DI PIOMBO?
- Massimo Catalucci

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Dalle ingiustificabili e istiganti parole di Francesca Albanese, al grido dei manifestanti -"giornalista terrorista sei il primo della lista" - si fa strada uno scenario politico che ci riporta indietro con la memoria agli anni '70, quelli terribili degli "anni di piombo"

articolo di Massimo Catalucci
ROMA - Martedì, 2 dicembre 2025 - (NEWS & COMMUNITY - Look at the World - www.massimocatalucci.it) - Ci sono giorni in cui l’Italia sembra avvolta da una nebbia che odora di passato. Un passato duro, feroce, che molti di noi speravano fosse stato definitivamente confinato nei libri di storia. E invece eccolo di nuovo lì, insinuarsi nelle piazze, nei talk show, nei cori urlati da volti giovani e meno giovani: un’eco che ricorda da vicino gli anni di piombo, gli anni in cui la politica smise di essere dialogo e divenne polvere da sparo.
Negli ultimi anni, qualcosa si è incrinato. Qualcosa di profondo, di inquietante.
L’Italia, il Paese del diritto e della dialettica costituzionale, si ritrova a fare i conti con slogan che sanno di intimidazione, con accuse generalizzate ai giornalisti, con toni che superano abbondantemente il confine del confronto civile. Ascoltare in diretta televisiva giovani provenienti dai centri sociali — giovani che molti temono possano essere indirizzati da figure più adulte e politicamente strutturate, come ad esempio le parole espresse da Francesca Albanese - “Sia monito per i giornalisti” - atte a giustificare atti violenti come la devastazione della redazione de "La Stampa", sono un colpo allo stomaco. Un allarme. Una sirena che non possiamo più ignorare.
LA VIOLENZA PRESENTATA COME SFOGO LEGITTIMO
Perché quando la violenza viene presentata come “sfogo legittimo”, quando si racconta un sistema giornalistico come un fantomatico apparato “terroristico”, allora il terreno sotto i piedi inizia a tremare.
Tremano i principi. Trema la democrazia. Trema la Costituzione stessa, che non vieta a nessuno di manifestare, ma chiede — anzi pretende — che lo si faccia nel rispetto delle regole poste a tutela di tutti.
Ed è proprio qui che nasce la contraddizione più clamorosa: gli stessi ragazzi che puntano il dito contro un presunto “sistema mediatico repressivo”, vengono poi invitati nei salotti televisivi nazionali per esprimere, liberamente, le loro ragioni.
Una contraddizione che da sola basterebbe a smontare l’idea di un giornalismo oppressore, affamato di censura. Se davvero il giornalista fosse un “terrorista”, come urlato in corteo, nessuno di quei giovani avrebbe un microfono davanti. Nessuno avrebbe spazio. Nessuno sarebbe ascoltato.
Eppure, nonostante questa evidenza, l’odio cresce.
Le parole — quelle che scaldano gli animi, quelle che vengono percepite come benzina su un fuoco già acceso — continuano a circolare, rimbalzare, moltiplicarsi. E quando anche figure pubbliche espongono giudizi o dichiarazioni che molti considerano divisive, ecco che la piazza si infiamma, si scalda, si spacca. E là dove il dialogo dovrebbe aprire porte, queste vengono buttate giù con la forza fisica che vuole imporre il "pensiero unico" a tutti gli altri.
Tutto questo dovrebbe farci tremare i polsi, dovrebbe farci riflettere, dovrebbe preoccuparci.
Perché la strada che alcuni stanno tracciando è scivolosa, buia, pericolosa. Una strada dove il dissenso non si esprime più con le parole, ma con la minaccia. Dove il carattere espressivo della parola perde il suo valore politico di confronto e di discussione, per diventare punitivo non solo da un punto di vista verbale, ma fisico. Dove i più giovani rischiano di essere travolti dall'illusione che la forza sia più efficace della legge.
Ma la legge esiste per proteggere tutti. E soprattutto, esiste la Costituzione italiana, la nostra bussola, il nostro faro.
È lì per ricordarci che il dialogo — anche acceso, anche critico — deve sempre muoversi entro i confini della convivenza civile.
Alle istituzioni il compito di frenare questa escalation violenta
Non c'è più tempo da perdere se si vuole frenare, prima che sia troppo tardi, questa ondata di violenza e odio che sta crescendo. Certamente, non per zittire le piazze, non per spegnere le idee, ma per impedire che l’odio diventi linguaggio politico e che la violenza diventi strumento di rappresentanza.
La democrazia non è fragilità: è responsabilità.
E allora sì, un freno va messo. Perché troppo spesso, dietro certe manifestazioni, non c’è voglia di dialogo, ma desiderio di caos. Non c’è ricerca di giustizia, ma foga distruttiva. Non c’è libertà, ma la l'imposizione di un pensiero unico, travestito da ribellione.
Occorre tornare al dialogo vero. Il dialogo che costruisce, non quello che devasta. Il dialogo che riconosce nella Costituzione un limite, sì, ma anche una promessa: la promessa di un Paese dove tutti possono parlare, dissentire, protestare…ma dove nessuno può minacciare, colpire, intimidire.
Chi usa la violenza in nome della libertà, della libertà è già nemico.
Se davvero vogliamo evitare di rivivere gli anni più bui della nostra storia, dobbiamo ricordarlo ad alta voce: la democrazia si difende con le parole, non con i ceppi delle minacce, né con l’eco di antiche ombre armate.
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